La solitudine
GENOVA. 25 MAR. Per logica universale, a chiunque giungesse per la prima volta sul nostro Pianeta e nulla sapesse dei suoi abitanti, della loro storia e delle loro tradizioni, sarebbe difficile spiegare, vista l’imponente densità abitativa dei nostri aggregati urbani, come mai la solitudine è diventata una delle piaghe, più o meno percepite, dell’uomo civilizzato.
Una condizione che trae origine e motivazione all’interno di Società dissennatamente ego-logiche ed individualiste, nelle quali, oggi, la predominanza della “comunicazione”, enormemente incentivata dall’ausilio di avvenieristiche tecnologie atte a consentirne un’estensione illimitata, resta, nella sua più elementare applicazione, relegata ad eventi irrituali e locali, ostaggio di usi e costumi (ostili) e subordinata all’esistente dicotomia tra latitudini e realtà differenti, tra metropoli e paese.
Per un verso, questa solitudine si radica, irrimediabile, nella diffidenza reciproca, solo in parte comprensibile; per l’altro, si intride di un progresso tecnologico metamorfico, dagli effetti dubbi quantomeno in termini di sviluppo della qualità di vita individuale e di relazioni di prossimità, su cui é prudente rivolgere una periodica attenzione sociale e sociologica, vieppiù nei confronti delle nuove e più gracili generazioni.
Questa “solitudine”, osservabile in ogni brulicare civico, sta manifestandosi in ossimoro, in una sua variante tipologica nociva ed illogica: la solitudine di coppia.
La questione assume tratti drammatici, qualora, dotati di adeguato spirito critico od intento speculativo, se ne riconoscano l’incidenza ed il gravame su quel (poco) che resta della “famiglia”, intesa come “un insieme di 2 o più persone” (cit. Dizionario Devoto-Oli).
Non è immaginaria la sensazione di estraniamento che essa connota. Come che sia, sarebbe forse semplicistico e riduttivo ricondurre tale reclusiva condizione all’ammiccante ipertrofia tecnologica, sebbene quest’ultima non agevoli né stimoli il libero fluire del linguaggio e quindi le relazioni dirette e naturali tra individui.
Nondimeno, come traggo anche da un recente scritto di Orietta MP Bassano, tale silenziosa solitudine di coppia è “reciprocamente angosciante” (cit.), interclusa ormai in una zonizzazione affettiva ristretta ed auto-assegnata.
Nondimeno, l’ottundimento da social, strumento ormai inseparabile dall’uomo, “come i pirati e il rum”, richiama, in una espressione senza tempo, il disperato “fermati, passante dagli occhi a terra”, verso di una poesia della M. Cvetaeva.
Ciò lascia ulteriore e conclusivo spazio all’amara considerazione di C.Cassola: “La vita in comune non apre il carcere della solitudine”.
Massimiliano Barbin Bertorelli
Leggi l’articolo originale: L’evoluzione dei tempi. La solitudine di coppia