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L’ambiziosa cerchiatura del quadro de Il Nano Morgante

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L’ambiziosa cerchiatura del quadro

L’ambiziosa cerchiatura del quadro

GENOVA. 13 AGO. Si pensi alla realizzazione di un dipinto. E, ancora prima, alla tela vuota che ne costituisce supporto. Al percorso emotivo tra la presumibile incertezza della prima pennellata e la liberatoria stesura dell’ultima. E, infine, si pensi all’opera, che, nel mezzo, via via prende forma.

Sovviene d’istinto un quesito forse inessenziale, pur tuttavia comprensibile: come, e quando, ci si accorge che un’opera è “conclusa”?  Qual è il fatidico istante che conduce al “naturale equilibrio”, in cui nulla va aggiunto e nulla tolto?

Di certo, occorre misura, esteriore ed interiore. Cedere alla “lusinga del colore” potrebbe irrimediabilmente compromettere il quadro, l’idea e l’immagine trasposta su tela.

Ciò vale, secondo limiti e proporzioni, per ogni azione dell’uomo: analoghi presupposti, simili disposizioni dell’animo: l’anelito a trascendere la realtà, i limiti e vincoli invalicabili che la stessa pone alle idee ed alla volontà.

Limiti e vincoli che Dante sperimenta nella Commedia, quando pone la “quadratura del cerchio” a metafora dell’impossibilità di comprendere l’Entità assoluta, il Divino. Quando volge inspiegabilmente ad altro, in tal disperante tentativo, l’hybris, l’irriverenza sfrontata della volontà superomistica.

In realtà, nulla è davvero indifferente. Tutto sostanzia. Tutto è manifestazione e costante rielaborazione.

Fuor e dentro di metafora, acclarata l’impossibilità di “quadrare il cerchio”, aggiriamo l’ostacolo: si tenti, con altrettanta ambizione, di “cerchiare il quadro ”: con l’ultima pennellata, con un impercettibile sfioramento cromatico della tela.

Impercettibile, forse, alla vista altrui, ma non alla nostra.

D’altronde, se l’agire dell’uomo si compie e si nutre dell’ idea del sublime, non deve forse egli stesso, proprio per questo motivo, sempre e comunque ambire ad essere il meglio di ciò che può essere?

Massimiliano Barbin Bertorelli

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