GENOVA. 3 DIC. Si può facilmente rilevare che in evenienze drammatiche, in impreviste situazione di comune pericolo, le persone tendono a confortarsi reciprocamente, a stringere più facilmente legame. Tendono a recuperare una dimensione sociale ed affettiva impraticata e sconsigliata in condizioni ordinarie.
E’ infatti usuale notare una indomita irrequietezza, una disarmonia irriconosciuta o disconosciuta, che spesso frappone tra gli individui un alto ed invalicabile muro.
Tale contrastante aspetto merita una riflessione.
Partiamo dal presupposto che costituisce certa individuale condizione di disagio e chiusura costituisce di per sé un problema. E che limitarsi a non riconoscere la condizione non elimina il problema né i drammatici effetti. Né tantomeno elabora eventuali rimedi.
Consideriamo inoltre che, con più o meno consapevolezza, questo problema tende a permanere inalterato nel tempo. Ci segue come l’ombra in una giornata di sole, camminando all’aperto.
Il preambolo è doveroso per meglio inquadrare l’ossessiva indole umana della paura del futuro, che, invece che unirci, pare alienarci l’un l’altro ed immeschinire i rapporti, ispirati ormai ad un criterio sospettoso ed escludente.
Utile chiedersi come sia possibile essere inconsapevoli di tal triste condizione e perché, da subito, non si tenti il tutto per tutto per mutarla.
Certamente, la “paura” si esprime in un calibro estensibile ed ostensibile, trovando esito e scadimento nella vacuità e brevità delle relazioni sociali, dove l’interlocutore di turno è, spesso, il primo sospetto immaginario di cui evitare il “tiro mancino”.
In un ambito mentale così radicato e radicale, pretendere dall’individuo l’auto-confutazione del proprio sé ha le stesse possibilità, grossomodo, riprendendo Wittgenstein, del “gettar via la scala dopo esserci saliti”.
Interiorizzando il concetto e traendone le debite conseguenze, resta ora da stabilire, vista l’idea di sbarazzarsene, se, su questa scala, valga la pena salire.
Massimiliano Barbin Bertorelli