GENOVA. 7 MAG. Non si imputi truculenza al titolo, né ci si dilegui sbrigativamente dall’argomento per la menzione “ ferite ”: attribuirgli a priori un significato ferale rivelerebbe solo una propensione al tragico.
D’altro canto, “ferita”, oltre il suo significato materiale, può estensivamente assumere anche quello, immateriale, di lacerazione morale ed emotiva. Ben differente per tipologia e localizzazione.
Nell’inutilità di soffermarsi su una loro improbabile comparazione, resta il fatto che una ferita interiore, pur invisibile ad occhi estranei ed esterni, tende a risultare nel tempo più dolorosa e di più lenta guarigione rispetto ad altra fisica. Diciamo meglio, per necessaria sintesi, che un possibile elemento di differenziazione potrebbe consistere proprio nel diverso grado di rimarginabilità del trauma.
Orbene, per dare finalmente senso alla trattazione, stanti le feroci dispute che la nostra Società ci impone, l’accostamento tra “ferita” e “feritoia” (il cui etimo ne deriva) assolve alla comodità metaforica di associare questa antica fenditura nel muro, a difesa del bastione dagli assedi, al contemporaneo modo di scrutare, ben protetti, gli altri: il nostro osservare il mondo estraneo da dietro le persiane.
E’ evidente che questa molteplice e vasta “estraneità”, la cui eco riecheggia e rimbalza impazzita all’interno dello spazio sociale, costituisce elemento di latente e frequente conflittualità.
Di certo, anche in talune dispute meta-fisiche, ciascuno fa ciò che può per non arrecarsi “ferite”. E, sperabilmente, per non arrecarle.
Ad ogni buon conto, si consideri conclusivo ed auspicabilmente dissuasivo il fatto che nessuno, da qualunque feritoia osservi la vita, può davvero ritenersi al riparo.
Così, per analogia, mai ci si dovrebbe sentire estranei al destino degli altri.
Massimiliano Barbin Bertorelli
Leggi l’articolo originale: Ferite & feritoie. Il nascosto riparo da noi stessi